Roberto Ippolito Ignoranti Chiarelettere
Roberto Ippolito Ignoranti Chiarelettere

Pubblicata venerdì 29 Marzo 2013 su “Leggo.it” l’intervista di Isabella Pascucci a Roberto Ippolito. Questo il testo.

ROMA – Roberto Ippolito, giornalista e scrittore, è autore del libro “Ignoranti. L’Italia che non sa, l’Italia che non va”, edito di recente da Chiarelettere.
L’INTERVISTA.
Secondo il Censis in Italia l’11,9% degli iscritti al primo anno delle scuole superiori abbandona gli studi. Anche questo è un dato dell’Italia degli ignoranti?
«Sicuramente sì: l’abbandono precoce degli studi rappresenta uno dei dati più allarmanti . L’Italia si sta lasciando andare: è triste dirlo ma è la verità. Un paese in recessione dovrebbe impegnarsi e sforzarsi al massimo per migliorare la propria preparazione a tutti i livelli e in particolare quella dei giovani. E invece vediamo un paese che non sta dedicando sforzi e risorse alla formazione e all’istruzione. C’è un disinteresse generale e diffuso per tutto ciò che riguarda il sapere».
Un nuovo governo per combattere anche l’ignoranza?
«In realtà la campagna elettorale è stata caratterizzata dall’assenza totale di discussione per la formazione, l’istruzione e la conoscenza. Tutti questi temi non sono stati oggetto di disputa politica né lo sono ora che ci siamo lasciati alle spalle la propaganda elettorale. È estremamente grave».
Partiamo dal dato più tragicomico: l’Impreparazione della classe dirigente. È di pochi giorni fa il post che ha imperversato su Facebook del parlamentare grillino Giorgio Girgis Sorial che invece della preposizione ‘ai’ scrive ‘hai’.
«Certi strafalcioni sono il segnale che qualcosa non funziona. Ovviamente non esauriscono i problemi e si può essere generosi: lo strafalcione può anche scappare a tutti noi. Ma, in misura più che rilevante, sono le basi che mancano. A volte può essere un’h in più, in altri casi, come racconto, di h e apostrofi in più ce ne sono molti, ma di concetti privi di alcun senso ce ne sono veramente troppi».
Un corso accelerato di grammatica per tutti?
«Potrebbe essere un’idea… Io vorrei essere ottimista e mi dispiace dover essere così rattristato, ma è difficile essere fiduciosi con un Parlamento scaturito da una campagna elettorale in cui di istruzione e di cultura non si è parlato. Non è mai giusto generalizzare, ma non ho visto leader politici incontrare delegazioni di insegnanti o andare in una scuola, né visitare un luogo simbolo del maltrattamento dei Beni culturali come, ad esempio, Pompei. Forse se fossero andati agli scavi si sarebbero resi conto di persona di quale sia la situazione e della spaventosa lentezza nel recupero e nella salvaguardia di un sito archeologico così importante».
Però, poi c’è chi conosce la grammatica. Le stime parlano di 200mila laureati under 35 senza lavoro. Studiare non serve proprio più?
«Non diciamolo neanche per scherzo, anche se la realtà a tanti può apparire questa. La crisi economica dovrebbe rappresentare l’esatto contrario, piuttosto un incentivo. E infatti negli altri paesi europei le difficoltà hanno spinto non solo a studiare ma a cercare le specializzazioni. In Italia si è studiato e si studia poco, ma ci si specializza ancora meno e non si scelgono canali specifici in cui perfezionare il proprio grado di preparazione».
Titola un parte del suo libro Tanto studio per nulla.
«I pochi laureati italiani hanno difficoltà a lavorare e non guadagnano di più come sarebbe prevedibile rispetto ai non laureati: in un caso su 4 il lavoro non è all’altezza del curriculum con un 26,8% di laureati con mansioni inferiori alle proprie competenze. Potrebbe sembrare un paradosso e un’anomalia grandissima, e invece è tragicamente conseguente: il sapere non interessa a nessuno. Quindi che ci sia un laureato con un bagaglio più vasto e qualificato di conoscenze è considerato poco rilevante. Spesso si preferisce la persona con minori competenze, forse perché ritenuta più malleabile nell’era del precariato e meno propensa a porre problemi».
Ma anche tra i laureati germoglia l’analfabetismo.
«In realtà, parlerei di analfabetismi. Ci sono vari fenomeni che caratterizzano il basso livello di istruzione dell’Italia intera, di grandi e piccoli. In troppi casi, dopo aver completato gli studi gli adulti non studiano più: la loro formazione specifica e il loro aggiornamento sono molto limitati. L‘analfabetismo di ritorno è, come ci dicono le indagini internazionali, a livelli terribili. La capacità di comprensione di un testo negli italiani è assai ridotta».
Ma anche analfabetismo da web.
«Questo fenomeno, che nel libro definisco neoanalfabetismo, è l’incapacità di utilizzare il pc e internet. Il 39% degli italiani tra i 16 e i 74 anni in un anno non ha mai toccato il computer, il 26% dice addirittura che internet è inutile. È evidente che tutti coloro che non hanno dimestichezza con il computer e con la Rete si estraniano dal mondo della comunicazione e dalla conoscenza, da tante possibilità di approfondimento e informazione. E sono già emarginati, ma rischiano di esserlo pesantemente ancora di più».
Le conseguenze?
«Questa forma di neoanalfabetismo è un problema enorme e assolutamente trascurato, che ha un impatto sulla qualità della vita dei singoli e sull’attività di quelle imprese che ritengono internet addirittura una perdita di tempo e non sono presenti con un proprio sito. La conseguenza è la perdita di un possibile fatturato. Le vendite online in Italia sono soltanto un terzo di quelle medie in Europa: per il 2011 rispettivamente il 15% e il 42%».
E delle critiche alla contrazione linguistica e alle ‘faccine’ che si usano in Rete che ne pensa?
«Onestamente non mi sembra che il problema dell’istruzione degli italiani passi attraverso una faccina o una parola scritta in modo contratto. L’importante è comprendersi, la lingua serve per comunicare e l’importante è che sia comprensibile da parte di tutti. Fra l’altro sono convinto che dalla nascita degli sms e dalla diffusione dell’email, gli italiani scrivono certamente più di prima. Il problema può essere il rispetto o meno delle regole grammaticali, ma è molto carente la capacità di scrivere ed esprimere concetti, di essere profondi e di entrare nel merito delle cose, di dimostrare di possedere conoscenze e competenze».
Ignoranza fa rima anche con scuole fatiscenti?
«Studiare dovrebbe essere la cosa più bella possibile per giovani e ragazzi, specialmente per il clima in cui questo dovrebbe avvenire. Andare a scuola dovrebbe essere bello, confortevole, in ambienti più che gradevoli. E invece oggi, troppo spesso, andare a scuola significa rischiare la propria incolumità. Di episodi negativi ce ne sono tanti: soffitti caduti, allagamenti, avvistamenti ripetuti di topi e via dicendo. I dati sono terribili, anche questi nel disinteresse generale. Uno su tutti, elaborato dal Ministero e che mi ha lasciato incredulo e sbigottito: solo il 3,4% degli edifici scolastici italiani possiede una dichiarazione di conformità alle norme antisismiche. Per un paese ad alto rischio sismico è pazzesco. Ma è impressionante anche il numero delle scuole che non dispone di adeguati impianti antincendio o dell’impianto elettrico a norma. Non è possibile che bambini e ragazzi trascorrano le loro giornate in ambienti di questo genere: è un’offesa a loro e al cammino che stanno facendo».
Il Ministero ipotizza un test per accedere alle scuole superiori. Ma i quiz ministeriali sono pieni d’errori. Un paradosso?
«Sì è una contraddizione: racconto di test sbagliati sia da chi li compila sia da chi li svolge. Il numero degli errori con effetti tragicomici di cui parlo nel libro è assolutamente troppo rilevante e quindi conferma che il problema dell’istruzione è diffuso nella società italiana e riguarda tutte le fasce d’età. In quanto al test di ammissione alle superiori, mi sembra che ci si stia orientando sempre più verso una scuola esclusiva che estrometta tanti invece di comprendere tanti. Oggi il problema è coinvolgere più studenti nel percorso scolastico. Tenerseli stretti, non allontanarli come invece sta sistematicamente avvenendo».
Nella quarta di copertina del suo libro cita Obama che si esprime a tutela dei fondi per l’istruzione, da cui non è possibile prescindere. Perché?
«Perché l’intero libro è costruito sempre sul confronto internazionale e non si tratta di accusare genericamente gli italiani di essere ignoranti, piuttosto di raccontare, con dati alla mano, come l’Italia risulti sempre fanalino di coda in tutte le classifiche internazionali per il livello di istruzione, formazione e conoscenza. Un dato su tutti: gli italiani tra i 25 e i 64 anni con al massimo la licenza media sono quasi la metà del totale. Solo Spagna, Portogallo e Malta hanno un livello peggiore».
Fra dieci anni potrà scrivere un libro sugli italiani colti?
«Sarebbe bellissimo, lo spero. E gli italiani colti sono già tanti. Non possiamo negarci la speranza e possiamo impegnarci in un cambiamento che dobbiamo volere e che deve essere prima nella nostra mente e poi nei provvedimenti, nelle leggi, negli strumenti. Certamente possiamo cambiare. Non è un percorso che si improvvisa ma che richiede tempo, sudore e tantissime risorse economiche. Ricordiamoci che siamo 22esimi in Europa per la spesa pubblica in rapporto al Pil destinato all’istruzione. Ma possiamo certamente farcela».
Qual è la ricetta vincente?
«Impegnandoci possiamo cambiare, dobbiamo cambiare. E possiamo riuscirci solo se lo facciamo… con il quore, ovviamente scritto con la q!».


 


 

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