Sono qui. Calpesto il terreno degli ultimi istanti di vita di Pier Paolo Pasolini, a Ostia. Si avvicina il 2 novembre, il giorno in cui nel 1975 lui è stato ucciso in via dell’Idroscalo, con tremendo accanimento. Lui: cioè lo scrittore, il poeta, il regista, il saggista. Nell’impossibilità di definire con una sola parola la sua presenza nel mondo della cultura, nel mondo, si può già scorgere la prima traccia di un’impareggiabile vitalità. Che è, in realtà, “Una disperata vitalità”, come proclamato da Pasolini quasi rabbiosamente con il titolo di versi compresi nella raccolta “Poesia in forma di rosa” del 1964, alcuni dei quali impressi sulla pietra nel luogo dell’omicidio: “La morte non è / nel non poter comunicare / ma nel non poter essere più compresi”. Mi siedo su una panchina, stando in mezzo fra queste parole sulla pietra e il monumento di Mario Rosati. Qui, proprio qui, si è infranta la frenesia del movimento di Pasolini, manifestata nella stessa raccolta “Poesia in forma di rosa” anche attraverso la singolare varietà del linguaggio e della tecnica adoperati ma contraddetta dalla “delusione della storia” espressa con nettezza. Ed ecco allora emergere l’ondeggiare di questo uomo spesso spinto in avanti e ripetutamente intento a guardare con mestizia un irrepetibile passato. Ecco il suo sentirsi impotente nonostante la volontà. Ritrovo tutto questo nel tragico prato di via dell’Idroscalo, passati 43 anni dalla violenta fine.

Foto Valentina Francese